Mercoledì 17 novembre è giunta notizia che è stata sospesa, in via temporanea, l’approvazione del gasdotto Nord Stream2, comunicazione che immediatamente ha fatto rimbalzare dell’11% il prezzo del gas metano. La vicenda non ha avuto nei media lo spazio che meritava: vediamo di mettere in fila alcune osservazioni che possono darci elementi per comprendere le conseguenze di tale fatto.
Apparentemente la sospensione dell’avvio del gasdotto Nord Stream2 è solo una questione burocratica formale. La regolamentazione europea stabilisce che il funzionamento di un gasdotto e la distribuzione del gas debbano essere effettuati da società separate e, in particolare, la legislazione tedesca prevede che la licenza dell’esercizio debba essere esclusivamente in capo ad una società di diritto tedesco. Attualmente il consorzio Nord Stream ha sede in Svizzera, per cui solo il trasferimento del consorzio ad una società di diritto tedesco consentirà l’avvio del gasdotto.
Dietro le questioni legali burocratiche vi sono invece vicende geopolitiche di assoluto spessore. Il Nord Stream 2, che affianca in parallelo il già operativo Nord Stream, porterà direttamente dalla Russia alla Germania 55miliardi di metri cubi di gas naturale e costituisce il gasdotto più lungo al mondo (1.230Km sul fondo del mar Baltico). L’infrastruttura del costo di 211miliardi di USA Dollari è interamente di proprietà del colosso energetico russo Gazprom a maggioranza statale. Il progetto, ideato nel 1997, ha un connotato geopolitico preciso: il tragitto della pipeline esclude i paesi baltici, la Polonia la Bielorussia e l’Ucraina. In sintesi Mosca mette in un angolo gran parte delle realtà statali antagoniste di Mosca. Eludere gli stati Baltici e di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria) nonché l’Ucraina dal percorso dei gasdotti diminuisce il potenziale contrattuale di questi paesi nei confronti di Mosca.
I due gemelli Nord Stream sono gravidi di conseguenze anche nei rapporti all’interno della Nato ed in particolare tra USA ed Europa. La dipendenza energetica da Mosca preoccupa non poco l’attuale amministrazione americana così come le precedenti. La geopolitica dei “tubi” è complicata anche da interessi economici diretti: gli USA hanno aumentato significativamente le forniture di gas naturale liquefatto verso il mercato Europeo, pertanto la linea diretta energetica tra Mosca e la Germania ne rappresenta un concorrente diretto. Per Putin il gasdotto rappresenta una tappa importante nella realizzazione di una versione russa “della via della seta” dove le pipeline costituiscono l’impianto principale. Il Nord Stream2 completa oltretutto il disegno strategico russo, affiancando a sud il Turk Stream e ad est la fornitura alla Cina tramite il gasdotto Power Of Siberia. In altre parole La Russia espande la sua presenza energetica sui principali mercati globali.
La sospensione dell’operativa del Nord Stream2 ha innescato una dura reazione di Mosca. La Russia sta giocando su più tavoli nel confronto con L’Europa: uno è quello energetico, l’altro è quello di inserirsi nel territorio africano, dalla sponda mediterranea al centro Africa passando dal Sahel sino al Corno D’Africa, spazio nel quale si giocano i futuri equilibri geopolitici del “Mediterraneo allargato”. Putin, per completare il suo disegno strategico, sta usando un arma per lei inedita – quella del corpo dei migranti – attraverso il vassallo Bielorusso. La vicenda del blocco dei migranti ai confini tra Bielorussia e Polonia si lega a doppio filo con quella energetica ed è la necessità di Mosca di garantirsi, attraverso la Bielorussia, uno stato cuscinetto con l’occidente a targa NATO. Preservare l’alleanza di Minsk diventa vitale e l’uso ricattatorio dei rifugiati è l’arma più efficace (ancor di più che la chiusura dei rubinetti del gas) date le profonde divisioni all’interno della EU sulla questione dei flussi migratori.
Quanto esposto sopra ci racconta di come il Nord Stream2 non sia un semplice gasdotto ma soprattutto ci introducono in una riflessione ancora più profonda: come l’Europa può uscire dal vicolo cieco del ricatto energetico di Putin?. La risposta la troviamo nelle carte della Next Generation EU soprattutto per la parte che riguarda la transizione al verde. L’ecologia è così distante dalle geopolitica? Proviamo a mettere in ordine alcune riflessioni.
La svolta green ha più volti che sono tra di loro strettamente interconnessi. Accanto alle questioni, maggiormente divulgate dai media, che riguardano la salvaguardia dell’ambiente, occorre associare altri due considerazioni, una di carattere industriale e tecnologico e l’altra geopolitica, aspetti che si condizionano a vicenda. La “neutralità ambientale” rappresenta l’ultimo tentativo che ha disposizione il vecchio continente per rimanere sul campo della competizione globale. Non è un caso che il 33,7% dei fondi rivenienti dalla Next Generation EU sono destinati alla transizione ecologica (per complessivi 70miliardi di Euro).
Negli ultimi decenni l’oriente ed ora sempre di più il continente africano (con il determinante concorso di capitali orientali) si sono imposti a livello industriale e commerciale azionando sostanzialmente due leve. Il costo del lavoro, estremamente concorrenziale rispetto all’occidente, Europa in particolare, ed i costi ambientali, pressoché nulli. Le due variabili hanno determinato il successo dell’oriente nella competizione globale. L’Europa, che non può più comprimere il costo del lavoro oltre gli attuali livelli, di fatto entrerebbe in crisi strutturale: il modello basato sui consumi ha solo due armi a disposizione – la transizione ecologica e l’innovazione digitale, aspetti strettamente legati tra loro.
Chi, tra i competitori internazionali, saprà essere leader nella ricerca e nell’innovazione, specie nella transizione al verde, potrà avere quel vantaggio scientifico, tecnologico e industriale per imporre i suoi prodotti sul mercato globale. La ricerca e l’innovazione hanno lo stesso peso specifico degli apparati militari: il predominio globale si gioca non solo sulla della deterrenza militare ma sulla capacità di sostituire le fonti energetiche fossili con altri fonti, sì meno inquinanti ma soprattutto innovative. La svolta al verde oltretutto priverà gli attuali paesi leader nella produzione delle fonti fossili (ad esempio Russia e paesi del Golfo) della loro importanza geopolitica, inducendoli tra l’altro a ristrutturazioni industriali i cui costi, con gli inevitabili contraccolpi sociali, potrebbero mettere in pericolo le loro attuali dirigenze politiche. Un Putin senza l’oro nero o blu difficilmente occuperebbe sulla scena mondiale il posto che attualmente gli compete e sarebbe ancora più in difficoltà al suo interno per assicurarsi, tramite la distribuzione dei proventi energetici, la fedeltà degli oligarchi.
Negli ultimi duecento anni la connessione tra energia e geopolitica è diventata sempre più netta. Chi deteneva le fonti fossili e la capacità di commercializzarle si poneva in prima fila nella platea della competizione mondiale: l’“epoca del carbone” ha visto prevalere chi lo deteneva, dapprima il Regno Unito poi Gli Stati Uniti e di seguito la Germania. Così come l’“epoca del “petrolio” dagli USA si è progressivamente spostata verso il Medio Oriente, i paesi del Golfo e la Russia. Il tragitto delle fonti fossili ha di fatto accompagnato la nascita ed il declino degli attori internazionali che si sono dati il cambio di potere sul palcoscenico mondiale.
Ora inizia una nuova era. La transizione ecologica non sarà repentina; le fonti fossili rimarranno ancora un elemento di base nella produzione mondiale ma la “rivoluzione verde” comporterà un riequilibrio geopolitico. Sul tavolo globale saranno altri soggetti che terranno il banco e daranno le carte, cioè chi saprà ricercare, produrre e commercializzare nuove fonti energetiche. Vi sarà una nuova geografia dell’energia e quindi del quadro geopolitico mondiale.
Se la transizione verrà portata a termine nei tempi previsti, alcune aree che per decenni sono stati al centro delle competizioni mondiali (vedi il Medio oriente e la questione palestinese israeliana) perderanno di importanza. La EU è protagonista nel passaggio al verde. La “rivoluzione verde” del vecchio continente non è frutto, come erroneamente si crede, della Next Generation EU ma prende avvio nel 2019 dal Green Deal Europeo.
Un passaggio fondamentale del Green Deal è la ristrutturazione dei trasporti. Ad oggi, questo settore contribuisce per il 27% alle emissione complessive di gas serra nel vecchio continente ed ha un peso economico di assoluto rilievo, costituendo il 5% dl PIL dell’Unione ed occupando 10milioni di addetti. La Commissione europea prevede l’intervento in due settori: quello del trasporto su strada e quello su rotaia. Per quanto riguarda il settore “gomma” si prevede di mettere in strada entro il 2030 110milioni di veicoli ad emissione zero. Anche per i comparti navale ed aerei sono stati assegnati entro il 2035 obiettivi per il contenimento delle emissioni e l’azzeramento delle emissioni entro il 2050.
Il passaggio al verde e la creazione delle relative infrastrutture viarie ed industriali pone un problema inedito – quello dei rifornimenti dei componenti per i quali l’Europa non è autosufficiente. La svolta green porta con sé delle nuove dipendenze, una su tutte il Cobalto (indispensabile per gli apparati elettrici) e le terre rare (elementi fondamentali per i dispositivi digitali quali i microprocessori).
L’accaparramento delle nuovi fonti non è solo una questione industriale ma sta rimescolando profondamente gli scenari strategici. L’Africa detiene il primato di alcuni elementi tra i quali il Cobalto. La repubblica Democratica del Congo conserva la metà delle risorse mondiali ed attualmente produce il 71% del cobalto globale. L’Africa è il nuovo baricentro delle terre rare (indispensabili per l’industria del digitale la riconversione green) e non è un caso che nell’ultimo quinquennio le missioni militari estere si stanno posizionando sul continente africano: l’Africa è il nuovo palcoscenico delle competizioni geopolitiche. La costruzione di “vie commerciali sicure” ha aumentato sul suo territorio, specie nel Sahel. la presenza militare europea ed è quindi del tutto conseguente e coerente la creazione, avvenuta nella scorsa estate, del primo nucleo di un esercito comune Europeo.
La rincorsa Europea alla transizione ecologica trova una sua ragione nel tentare di scardinare la leadership della Cina, il concorrente di maggior rilievo nella corsa alla transizione ambientale. Pur vero che Pechino è responsabile di un significativa quota delle emissioni ma è altrettanto vero, anche se spesso ignorato dalla pubblica opinione, che è leader nelle tecnologie legate all’energia “pulita”. Pechino, dal 2015 ad oggi, detiene il primato mondiale dei brevetti sulle rinnovabili e dei microprocessori; è in prima posizione nella classifica dei produttori di panelli solari (70% della quota mondiale) e di metà delle turbine eoliche; è la prima produttrice di bus e veicoli elettrici e realizza il 70% del dato globale delle batterie al litio, indispensabili per la svolta all’elettrico. Un aspetto rilevante è che Pechino ha messo in cantiere una nuova versione della “Via della Seta” denominata Belt and Road International Green Development Coalition, un cartello di 130 paesi per allineare gli investimenti della “Via della Seta” ai parametri dell’Agenda ONU per lo Sviluppo Sostenibile. La Cina, sulla scia della Next Generation EU, ha emesso i primi bond “green” per la svolta al verde della BRI.
In conclusione la transizione energetica configurerà le nuove alleanze industriali commerciali a livello globale. Non sono prevedibili al momento i tempi necessari per il completamento del processo né tantomeno il livello e la profondità dei cambiamenti geopolitici, anche se sicuramente comporterà una ridefinizione di alleanze da tempo consolidate. Una, su tante, il rapporto tra Stati Uniti e Stati del Golfo, così come il fatto che i “colli di bottiglia” delle vie energetiche, specie marittime, vedi Stretto di Hormuz o Stretto di Malacca, potrebbero essere meno rilevanti rispetto ad oggi. La sesta flotta americana a guardia dello stretto di Malacca, via di transito obbligato per i traffici marittimi da e per la Cina, potrebbe allora essere dirottata su altri quadranti dello scacchiere strategico.
Vi è un problema comune alle superpotenze EU, USA e Cina: la riconversione verde porterà ad una gigantesca riconversione dei sistemi industriali, economici e sociali, con forte ricadute occupazionali – vedremo chi saprà gestire al meglio una tale riconversione. Altro dato significativo è che la quantità straordinaria degli impegni finanziari per la svolta ecologica richiederà una collaborazione sempre più stretta tra pubblico e privato, una santa alleanza per salvaguardare, seppur dipinto di un rassicurante colore verde, gli attuali modelli economici basati esclusivamente sull’incremento di un economia che pare avere il fiato corto, per salvare il salvabile.
Sino a che punto il castello si reggerà ancora su di una crescita senza fine?. Dopo aver saccheggiato quanto è disponibile, ora si cercano nuove risorse per eludere la domanda di fondo e questo sistema da tempo ha il fiato corto. Non sarà l’idrogeno verde, l’eolico od il fotovoltaico a salvarlo ma solo un rifiuto teorico e pratico dell’espansione illimitata. Ciò che determinerà il cambiamento sarà la capacità dei singoli e della collettività di consumare diversamente e soprattutto un modo diverso di associarsi tra umani.
Daniele Ratti